Aubertin giunge alla monocromia sulla scorta dell’esempio di Klein, che le mostre tra Milano e Parigi e Düsseldorf hanno reso, nel 1957, il paradigma del nuovo artistico, scavando la faglia definitiva nei confronti di ogni informalismo possibile. Il monocromo di Klein, non è affermazione fisica ma idtestoentificazione di una sorta di trascendenza metafisica del colore, alla ricerca dell’ “indéfinissable” di cui scriveva l’amato Delacroix.
La concezione dell'achrome da parte di Piero Manzoni è, ciò è ben noto, successiva alle postulazioni di Klein, ma se ne differenzia all'origine in modo netto sul piano dell’elaborazione concettuale. Tanto Klein punta a una sorta di purezza immateriale, altrettanto Manzoni è attratto da una cruda e snudata materiologia del quadro, dalla configurazione di una presenza che si oggettiva, come una cosa tra le cose.
Klein, Manzoni, Aubertin sono esponenti lucidi di quell’azzeramento fabrile e di quella distillazione concettuale dell’idea di colore, e dell’essere dell’opera, che ne fa una pura, nitida, flagrante “presenza modificante” in seno all’esperienza del vedere, del vivere l’esperienza artistica.
Dopo quel primissimo e brevissimo momento, lo scorcio finale del decennio Cinquanta, anche la monocromia si fa genere, per qualcuno modalità tecnica, per qualcun altro vague da cavalcare a diverso titolo. Ma quell’assoluto non viene più raggiunto da alcuno. È, davvero, un momento di fondazione.